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Didascalia

Vajont

Era il 1963, avevo 8 anni, la mia casa era frequentata da mezzo paese, contava 450 anime, perchè in una grande stanza troneggiava una Vega, oggetto che come la radio, non cambierà mai nome nonostante le cose che vi si vedono dentro siano così diverse.
Accenderla era un rito, l'attesa del riscaldamento delle valvole, il tubo che si illuminava dal punto iniziale.
Venivano a vedere Lascia o Raddoppia, o il Musichiere portando vino, patate americane e castagne.
Ma quella notte la televisione non poteva mostrare nulla, le notizie e le immagini avevano altri modi, altre velocità per entrare nelle case, e quando, non portavano tutto il loro drammatico peso.

Era il 1963, anno orribilis, l'anno di JFK, l'anno di Giovanni XXIII.

La mattina del 10 ottobre mi sono svegliato come tutti i giorni per la scuola, da poco ripresa, frequentavo la seconda, e mia nonna porgendomi il caffelatte dice: prima di mangiare prega con me perché stanotte è successa una grande disgrazia, due paesi sono stati portati via da una diga crollata.
Nessuno può pensare a una disgrazia con una diga senza immaginarne il crollo. Umanamente impossibile concepirlo. Nell'immaginazione di tutti la "catastrofe" è il crollo della diga.
Io non potevo capire la portata della cosa, non ero abituato ad ascoltare e capire la radio, ma quel mattino le voci a ondemedie del radiomarelli tremavano delle emozioni degli stessi annunciatori. Il Vajont era la prima sconfitta della ricostruzione e tutti la volevano vivere come un evento "naturale". L'acqua, la terra, la notte, il Piave che diventa una Piena. Il Piave. Nella mia testa era il fiume della guerra, dove migliaia di soldati avevano fermato lo straniero. Mi immaginavo i corpi, le case, i beni, i giocattoli di Longarone trascinati via galleggiando dalle acque del fiume verso il mare.
Non sapevo che l'acqua di un fiume in piena è scura, quasi nera, ma in quella notte nessuno poteva averla vista l'acqua. Solo il vento avevano sentito. Lo spostamento d'aria causato prima dalla frana del monte e poi dal lungo tonfo dei 50milionidimetricubidacqua scaraventati 800 metri oltre la diga.

Nel 1982 sono stato lassù per la prima di altre volte, arrivando dalle spalle della diga. C'era ancora un residuo dell'invaso d'acqua che era il Lago Vajont. Nulla ti annuncia che sei sulla scena di una catastrofe. Scena ancora viva, perché nessuno sarebbe capace, anche volendolo, di cancellarla.
Grandi cumuli disordinati di sassi e rocce con qualche alberello emergono dall'acqua. Si intuisce che c'è qualcosa di strano, innaturale, che quelle masse di roccia non sono stratificate e sedimentate come in tutte le montagne. Come se un enorme camion munito di cassone ribaltabile le avesse rovesciate nell'acqua. E lo sguardo cerca istintivamente il posto dove stava tutta questa terra, e con un brivido lo scopri.
A sinistra si vede il moncone del monte Toc come se fosse stato sezionato. Un enorme piano inclinato, liscio, lucido di riflessi umidi mostra senza bisogno di capire la dinamica del fatto.
Tutta questa terra che ha riempito il lago, stava sopra a quel piano di roccia maledettamente inclinato.
Sarebbe rimasta là per millenni se l'innalzamento dell'acqua non ne avesse minato, bagnandola, la base.
Due gradi in meno di inclinazione della faglia, e nulla sarebbe accaduto.
Ma alle 22,39 di quel 9 ottobre è accaduto.

Proseguendo oltre costeggiando questo cumulo disordinato si arriva alla diga, una diga che non trattiene più acqua, ma terra, diga di cui si vede la cresta irregolarmente erosa dalla forza della tracimazione.
A lato della strada c'è una sorta di cappella mausoleo, orrenda, con dentro immagini e documenti sulla tragedia.
Ma la cosa che ti attanaglia camminando in questo luogo è il silenzio che lo pervade.

Alcuni gitanti scendono da un pullman ed il chiasso festoso che rallegrava l'abitacolo si smorza.
Nessuno parla o ride più. La gente si guarda intorno e cerca di capire, di decifrare le cose che vede e leggi lo sgomento nei volti.
Dopo qualche minuto di muta attenzione, i primi sussurrati commenti a chi è più vicino: la descrizione di ciò che si è capito come per averne un confronto e subito un conforto.
Se si prosegue oltre, la strada si infila in una serie di gallerie che ogni tanto offrono delle aperture verso la valle.
Una di queste dà esattamente nel punto di appoggio della diga sul versante e affacciandosi si percepisce la vertigine dell'altezza dell'opera di cui si stenta a vedere la base.
Ma si vede anche il dilavamento, che si estende per oltre cento metri in
altezza, provocato dalla massa d'acqua e detriti quando è volata oltre la cresta della diga.

Nessun vegetale, solo roccia cruda, fino alla fine della strettissima valle che si apre poi nella piana del Piave dove stava Longarone.

Anche i manufatti in cemento sono come "disossati"  di essi rimangono solo le armature in ferro arrugginite, tutte domate dal flusso dell'acqua  come capelli piegati dal vento. Nella parete di questa apertura, da cui si accedeva alla strada che percorreva la cresta della diga, mani pietose hanno affisso alcune lapidi in memoria degli operai che stavano quassù.

Era una giornata ventosa e fredda quando ho notato quella con le foto di due giovani e l'epigrafe. Un epigrafe che mi ha portato il gelo che sento al solo pronunciare la parola Vajont:

diga funesta
per negligenza e sete d'oro altrui,
vi lasciaste la vita
che insepolta resta



(se passate per il Cadore, fermatevi a Longarone e salite fin lassù, in un'ora si va e si viene, ma si pensa per tutta una vita)


lucia corvelli webmaker